Jhonata Dalber Matos Alves è morto il 30 giugno, a 16 anni, mentre camminava con un amico nella favela carioca Morro do Borel con un sacchetto di popcorn in mano. Frequentava il primo anno di un collegio statale di Usina e nel tempo libero faceva volare gli aquiloni. Chi l’ha mandato all’altro mondo mentre usciva dalla casa degli zii è un poliziotto della UPP (Unità di Polizia Pacificatrice) che gli ha sparato alla testa e lo ha mandato diritto all’ospedale di Andaraí, dove poco dopo è spirato.
La dinamica dell’omicidio è incerta. Secondo la famiglia la UPP ha sparato intenzionalmente, dopo aver scambiato il sacchetto di popcorn che il ragazzo teneva in mano per droga. L’amico di Jhonata racconta di essersi gettato a terra al momento dello sparo e di aver implorato di non esser ammazzato. Ma secondo la dichiarazione della polizia militare, i due adolescenti stavano camminando in una zona – la Curva do Horácio – dove era in corso una sparatoria tra poliziotti e narcotrafficanti. I dettagli forniti dal comando della UPP parlano di due uomini in motocicletta, uno dei quali avrebbe avuto con sé un’arma da cui sarebbero partiti dei colpi in direzione della polizia. Il fuoco di risposta avrebbe ferito Jhonata a morte.
Le indagini per chiarire la dinamica dell’omicidio sono in corso e Fábio Cardoso, portavoce della Delegacia de Homicídios (squadra omicidi) ha già fatto sapere che dai primi accertamenti non risulta il ragazzo fosse armato. Dovessero le investigazioni confermare la versione divulgata dalla famiglia, il poliziotto che ha premuto il grilletto sarebbe accusabile di omicidio (sempre che la giustizia riesca a fare il proprio corso). Nel caso in cui si tratti invece di un “errore”, Johnata andrebbe ad allungare la triste lista delle vittima di balas perdidas, le pallottole vaganti. Secondo una ricerca pubblicata da Globo News, nel 2015 le balas perdidas hanno ucciso almeno 52 civili e causato più di 80 feriti. Il 44% delle vittime proviene dallo stato di Rio de Janeiro ed è per la maggiore maschio, di età inferiore ai 18 anni, di origini afro-brasiliane.
Durante i funerali di Waldik Gabriel Silva Chagas, un bambino di 11 anni ucciso il 26 giugno scorso con un colpo alla nuca dalla Guardia Civile Metropolitana di São Paulo, Abisogun Olatunji – attivista per i diritti degli afro-brasiliani ed insegnante di storia, parla di pulizia etnica. “Ogni 23 minuti un giovane nero muore brutalmente assassinato in Brasile”. Ed aggiunge “Vivo nella zona di Itaim Paulista ed ho un figlio di tredici anni, Ayodele. Qualche sera fa mi era venuta voglia di mangiare delle patatine fritte e avevo pensato di chiedere a lui di andarle a comprare. Ma ci ho ripensato immediatamente e gli ho detto: Resta pure a casa. Ci vado io, che ho meno chance di morire”.
A denunciare la gravissima violazione del diritto alla vita dei bambini e adolescenti brasiliani è anche l’UNICEF, che in un rapporto fatto circolare nel 2015 ha reso noto il numero di giovani al di sotto dei 19 anni uccisi nel 2013 in Brasile. Sarebbero più di diecimila, e gli valgono il secondo posto nella classifica dei paesi con il più alto indice di omicidi di questo tipo, preceduto solo dalla Nigeria.
Chi parla di politica di Stato non ha tutti i torti. Il Brasile si è dotato negli anni di strumenti legislativi che con ogni evidenza non è interessato ad applicare. Non ci riferiamo solo all’articolo 3 della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, firmata anche dal Brasile nel 1948, che sancisce il diritto di ogni individuo alla vita, alla libertà ed alla sicurezza della propria persona. Ma anche all’ECA, lo Statuto dei Bambini e degli Adolescenti approvato il 13 luglio 1990 dal governo brasiliano che, all’articolo 7 del Capitolo I° Dei Diritti Fondamentali, riconosce ai bambini e agli adolescenti il diritto alla protezione della vita e della salute, mediante l’attuazione di politiche sociali pubbliche che permettano la nascita e lo sviluppo salutare ed armonioso, in condizioni di esistenza dignitosa.
Le Nazioni Unite hanno duramente accusato le autorità brasiliane di permettere l’uccisione di giovani per mano della polizia al fine di “ripulire” le metropoli, soprattutto Rio de Janeiro, in vista dei giochi olimpici che inizieranno tra poco meno di un mese. “Non avrò il tempo di tifare per il Brasile ai Giochi. Sarò preoccupata per la mia famiglia e per gli abitanti di Manguinhos, la favela in cui vivo”. Ana Paula Oliveira scrive da Ginevra, dove ha partecipato ad una riunione del Consiglio dei Diritti Umani dell’ONU per parlare delle violazioni di diritti legate alla Coppa del Mondo ed alle Olimpiadi. Ha 39 anni ed un figlio finito al cimitero due anni fa per mano della UPP. “Jhonatha aveva 19 anni quando il 14 maggio 2014, un mese prima dell’inizio dei mondiali di calcio, é stato ucciso dalla polizia militare con un colpo alla schiena. Era disarmato, non era un delinquente”. Racconta che il poliziotto che ha ucciso il figlio era già accusato di tre omicidi e due tentati omicidi e nonostante ciò continuava a pattugliare le strade. “Dopo aver ucciso Johnatha ha continuato a fare il poliziotto. Ho dovuto presentare una richiesta alla Commissione per i Diritti Umani dell’Assemblea Legislativa di Rio de Janeiro per fare in modo che fosse almeno trasferito”.
Ana Paula parla per tutte le madri che hanno dovuto seppellire i loro figli in circostanze simili. “Al Consiglio ho detto che temo l’arrivo delle Olimpiadi, perché le autorità hanno già annunciato che l’esercito occuperà alcune favelas durante i Giochi. Ciò significa dell’altra violenza. Il Comitato Olimpico deve garantire che la polizia non ucciderà”.
Questa madre, oltre a perdere il figlio, é stata sottoposta all’evacuazione forzata dalla sua abitazione nella favela di Manguinhos. Un destino riservato a molti favelados, come parte di un piano di “risanamento” di Rio de Janeiro e di costruzione ed ampliamento di strutture finalizzate ad ospitare gli eventi olimpici. Si appella all’ONU perché non ha alternativa. “La mia unica certezza è che le Olimpiadi passeranno ed io continuerò a lottare. Per i poveri, quel che resta è un’eredità fatta di dolore, sangue e lacrime”.
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