di Francesca Reboli – Tra disastri ambientali e desiderio di preservazione, il Brasile mantiene un rapporto contraddittorio con il suo patrimonio naturale. Tra i brasiliani rimane comunque forte la voglia di mobilitazione in difesa dell’ecosistema. Con azioni concrete ma anche con la poesia, la letteratura, la pittura
La natura in Brasile non ha mezze misure. È potente, implacabile, sempre presente anche tra il cemento delle città. È la faccia felice della rigogliosa e rinfrancante vegetazione tropicale, ma sa avere la durezza del sertão – il deserto del Nordeste, per esempio, con le sue prolungate siccità – o la rovinosa ferocia delle alluvioni. Lo sa chi ha viaggiato in Brasile anche una sola volta, e magari ha avuto la fortuna di assistere a un tramonto su una duna di sabbia, o di passeggiare nel Jardim Botanico di Rio de Janeiro.
«Una foresta in Europa ha cinque sfumature di verde, in Brasile almeno cinquecento, e altrettante di rosso», dice l’illustratore carioca Filipe Jardim (cognome perfetto il suo, “jardim” ovvero “giardino”): una frase che rende perfettamente l’idea della “natureza” latinoamericana. «Crescere in Brasile ti dà il senso del pianeta» sono invece le parole, bellissime e rivelatrici, di Sebastião Salgado. Le pronuncia nel film che Wim Wenders gli ha dedicato, “Il sale della terra”, quando ricorda l’infanzia nella fazenda dei genitori e il suo sguardo si perdeva lungo orizzonti verdi che sembravano non finire mai. Oggi quelle foreste non ci sono più, al loro posto pascoli aridi, residuo dello sfruttamento intensivo del terreno per l’allevamento del bestiame. Di fronte a questa drammatica trasformazione, Salgado si è impegnato in una missione di rimboschimento e preservazione della “mata”, la foresta atlantica, creando la ong Instituto Terra.
Di recente il fotografo, con Terra, ha presentato il progetto per la creazione di un fondo permanente per recuperare l’ecosistema distrutto nel disastro ambientale di Mariana, il peggiore della storia brasiliana. Era novembre quando la diga Fundão della Samarco crollò, riversando 34 milioni di metri cubi di residui minerari e materiali chimici nell’ambiente, cancellando le valli del Minas Gerais, attraversando lo stato di Espírito Santo, inquinando irrimediabilmente il Rio Doce e sfociando nell’Atlantico, 650 chilometri più in là. Le foto di quei giorni sono drammatiche: un’enorme macchia scura galleggia nell’oceano come un’immagine di morte e distruzione. Diciannove persone persero la vita. Oggi di quei paesi, del fiume e delle valli resta un’enorme colata di fango secco e inquinato. Non c’è più vita, nemmeno “ruido de bicho”, i versi degli animali, racconta il contadino Antônio Geraldo de Oliveira, abitante di Paracatu de Baixo, uno dei villaggi cancellati, intervistato dal quotidiano O Globo. A distanza di cinque mesi, la Samarco, responsabile del disastro, non ha ancora fornito garanzie sufficienti per la bonifica della zona inquinata, come ha spiegato Arianna Marin sul nostro sito (qui).
Situazione preoccupante anche in Amazzonia. Si leggono i dati diffusi da Imazon, una onlus indipendente che da vent’anni monitora la regione amazzonica, e si resta senza parole, senza speranze. Dall’agosto 2014 al febbraio 2015, sono stati disboscati 1700 chilometri quadrati di foresta, ovvero un’aera più grande della città di San Paolo. Principali motivi, l’espansione dei terreni da pascolo per l’allevamento di bestiame e l’aumento delle colture che insieme hanno provocato una deforestazione maggiore del 215 per cento rispetto al periodo precedente (in particolare, stato per stato: Mato Grosso 35%, Pará 25% e Rondônia 20%). Dati che, fanno notare gli analisti, potrebbero risultare ancora più gravi, e che tuttavia il ministero del Meio Ambiente brasiliano si rifiuta di commentare, non considerandoli ufficiali.
Triste pensare come ormai molte specie vegetali della mata atlantica siano estinte. Bello sapere che c’è qualcuno che si impegna per preservarne almeno la memoria. A Olinda, cittadina coloniale ricca di storia e purtroppo mal conservata, che è anche un sobborgo di Recife, un pittore prende alberi, fiori, foglie di cui esistono ancora pochi esemplari e, come in un grande erbario illustrato, li dipinge, con colori ad acqua o a olio, su grandi pannelli di legno (recuperato anch’esso). Walter Freitas vive in una chiesa sconsacrata in cima a una salita nel centro storico della cittadina. Dipingere è il suo modo per rendere omaggio alla giungla brasiliana di cui oggi sopravvivono pochi, ma sempre entusiasmanti esempi. Una descrizione interessante di che cosa sia questa inimmaginabile, impensabile, inestricabile foresta la dà lo scrittore di Rio Alberto Mussa nel romanzo La casa degli scambi (edizioni E/O): «Se in un deserto il viaggiatore, o il prigioniero, vede perennemente la stessa scena, facendo così esperienza del vuoto, nella foresta un paesaggio non sarà mai visto due volte. La foresta è un labirinto quantico: chi vi è rinchiuso interferisce con i suoi sentieri, allontanandosi da solo e sempre più dall’uscita». Un labirinto in cui sarebbe bello potersi perdere ancora.
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