Rio, sono già 35 i bambini vittime delle “balas perdidas”

di Francesca Reboli

A un anno dalle Olimpiadi, Rio soffre e piange. Da gennaio 2016 a giugno 2017 sono 1400 le persone morte o ferite in uno dei 14 “tiroteios” (sparatorie) che ogni giorno – sì, ogni giorno – si contano nell’area metropolitana della città. (I dati sono dell’Instituto de Segurança Publica).

Lo scorso luglio è stata seppellita Vanessa Vitória dos Santos, 10 anni, vittima casuale di un conflitto armato. Con lei salgono a 35 dall’inizio di quest’anno i bambini sotto i 14 anni morti nello stesso, inaccettabile, modo; la più piccola aveva solo due anni.

Alcuni si trovavano a casa, altri camminavano per andare a giocare in strada o al parco; una ragazza di 14 anni era a scuola: è stata uccisa durante la lezione di educazione fisica.

Di solito ci si riferisce alle vittime di questi scontri a fuoco – la maggior parte dei quali avviene nelle “comunidades” (quelle che noi chiamiamo “favelas”) e coinvolge la polizia – parlando di morti delle “balas perdidas”, cioè proiettili vaganti.

Da tempo, gli abitanti delle comunidades cercano di sensibilizzare le persone sull’insensatezza di questa espressione. Perché proiettili “vaganti”, chiedono? Sono pallottole sparate consapevolmente, durante conflitti armati, contro obiettivi identificati, che finiscono per colpire persone la cui unica colpa è trovarsi nel posto sbagliato nel momento sbagliato.

Si tratta cioè di vittime di omicidi che hanno dei colpevoli, e non della presunta casualità di spari vaganti.

Colpevoli che non vengono puniti, per la disperazione delle madri e dei padri, delle mogli, dei mariti, dei fratelli di chi muore in questo modo assurdo. Nessuno indaga, nessuno si preoccupa di identificare i colpevoli. «I nostri figli muoiono e non importa a nessuno, come se a morire siano degli animali», dice una madre del Complexo do Alemão, una delle più vaste comunidades carioca.

Nel 90% dei casi, gli omicidi rimangono irrisolti.

Da tempo gli abitanti di Alemao e Penha si stanno mobilitando per far sentire la loro voce.

Il governo li ha abbandonati – tanto più in questo periodo in cui le casse dello stato di Rio de Janeiro sono vuote, e l’amministrazione è in bancarotta – ma i “moradores” tentano di reagire organizzando reti di informazione e supporto.

Tra queste, il “Coletivo Papo Reto” che impiega app e social network per informare in tempo reale delle sparatorie in corso, e delle loro conseguenze. Tra queste, la chiusura delle scuole: dall’inizio dell’anno, un quarto degli istituti ha dovuto sospendere le lezioni a causa dei conflitti armati.

Vivere in “comunidade” a Rio è vivere in guerra, drammaticamente circondati dalla violenza, spesso senza scuole, senza medici, senza supporto psicologico, convivendo ogni giorno con un clima di impunità e la consapevolezza della corruzione del sistema, abbandonati dallo stato.

Stato che, come unica soluzione, ha deciso di inviare l’esercito nelle strade carioca, con un’operazione costosa, inutile e a breve termine, concentrata nei punti turistici della città.

Come al solito, ci saranno più armi e sparatorie, invece di scuole, ospedali e trasporto pubblico.

 

 

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