Carceri brasiliane, l’inferno in terra

 

 

 

 

 

Sovraffollate e controllate dai gruppi criminali: la terribile situazione delle prigioni in Brasile, dove né i politici né la società civile si muovono per cambiare le cose. Qualche dato per capire

Difficile per noi italiani farci un’idea di cosa sia davvero una prigione brasiliana. Forse l’unico termine di paragone possibile è l’Inferno dantesco, un luogo che appunto va al di là della nostra immaginazione, un girone di sofferenze indicibili, tortura e barbarie. Le stesse che in questi primi giorni dell’anno abbiamo letto riportate negli articoli sui massacri avvenuti nelle carceri di Manaus, Monte Cristo, nello stato di Roraima, ad Alcaçuz, nel Rio Grande do Norte, dove più di 100 persone sono state assassinate durante rivolte e conflitti tra fazioni criminali e polizia. Il primo, spaventoso dato a nostra disposizione denuncia lo stato di sovraffollamento delle prigioni del Paese, in cui mediamente il numero dei detenuti supera di due, o in alcuni casi tre volte, quello inizialmente previsto. Secondo stime approssimative i detenuti sono 620 mila (il Brasile ha la quarta maggiore popolazione carceraria del mondo), mentre ufficialmente c’è spazio solo per 370 mila. Ogni mese altre 3 mila persone vengono rinchiuse nei penitenziari già affollati, tanto che la popolazione carceraria è aumentata più del 160 per cento dal 2000.

Altri dati riescono invece a darci un’idea – anche se mai abbastanza realistica – delle condizioni di vita e di salute all’interno delle carceri. Per esempio, il fatto che chi vive nei penitenziari ha il 30 per cento di possibilità in più di ammalarsi di tubercolosi e di Aids, a causa anche della diffusa violenza sessuale. Oppure, la profonda ineguaglianza, mutuata da una società civile spaccata in due, che stabilisce che chi è più istruito, in possesso di una laurea (e quindi anche i molto politici e manager accusati di corruzione), possa godere del privilegio di una cella individuale, laddove gli altri, anche se accusati di crimini non violenti, finiscono nelle celle comuni con i detenuti più pericolosi. Inoltre, la maggior parte dei prigionieri non può permettersi assistenza legale e, data la cronica penuria di difensori d’ufficio, è destinata a restare in carcere più del dovuto. Le statistiche poi dimostrano che i giovani neri hanno molte più probabilità dei bianchi di finire ammazzati durante il periodo di detenzione. Nonostante le leggi raccomandino di non punire con la prigione i crimini non violenti, i giudici propendono per l’incarcerazione anche per i reati minori, legati soprattutto al traffico di droga. Tra gli effetti di questa politica c’è, ovviamente, l’ingrossamento delle file di detenuti, che  vengono spesso cooptati dalle gang di trafficanti che ormai dominano le carceri brasiliane (il massacro di Manaus è scaturito da una guerra tra due fazioni rivali: PCC e Familia do Norte e Comando Vermelho). Un’altra statistica informa infatti che il 70 per cento di chi esce dal carcere ci ritorna poco tempo dopo.

I governanti brasiliani non hanno la capacità politica ed etica per correggere questa situazione disastrosa, del resto nemmeno la società civile fa nessuna pressione per cambiarla. Nel 2015 un sondaggio ha dimostrato come l’87 per cento dei brasiliani fossero favorevoli all’abbassamento dell’età penale (minoridade penal) da 18 a 16 anni. Ci vorrebbero misure più ampie e una visione a lungo raggio che diminuiscano il flusso dei detenuti grazie a processi veloci per i casi minori, percorsi di riabilitazione per chi commette crimini meno gravi e supporto per gli adolescenti a rischio: soluzioni che tuttavia non si profilano all’orizzonte.

 

 

 

 

 

 

 

 

“La prigione in Brasile non è fatta per riabilitare nessuno, la prigione in Brasile è fatta per soffrire”, dice Drauzio Varella, medico e figura molto popolare in Brasile. Non è cambiato molto da quando, negli anni 90,  denunciò la situazione che sfociò nel massacro del carcere paulista di Carandiru, in cui morirono 111 persone. Nel suo libro Estação Carandiru (purtroppo mai tradotto in italiano), Varella, medico volontario dei detenuti malati di Aids, racconta le condizioni disumane degli uomini costretti a vivere come animali nell’edificio e la carneficina dei detenuti da parte di 84 poliziotti (in seguito condannati). Una storia terribile, un punto di non ritorno per tutti i brasiliani, da cui nel 2003 il regista Héctor Babenco, recentemente scomparso, ha tratto il film Carandiru. Vederlo è un modo per cominciare a capire che cosa sia la vita – il contrario della vita – in una prigione brasiliana.

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